Quello che segue è un mio commento, lasciato qualche tempo fa su questo post del Movimento 5 Stelle di Pontedera, dalle parti di Pisa. In breve, la storia è questa. Forza Nuova irrompe ad un evento pubblico, organizzato dal comune, in cui si concedeva la cittadinanza (simbolica) a stranieri nati in Italia. Si organizza un corteo contro FN e in solidarietà di stranieri e forze democratiche. il M5S non aderisce, motivando la cosa con sconcertanti considerazioni da beceri leghisti. Poi sono successe varie cose, anche peggiori, il fuori dalle palle, gli epurati, le primarie-farsa, varie cose che hanno fortemente intaccato il mio status di simpatizzante per questo movimento.
Vedrò un po’ che fare alle prossime elezioni. Per ora, riporto alcune osservazioni che feci con l’occasione, riguardanti la mia esperienza di migrante, che mi permette di guardare le cose da un un punto di vista particolare, quello di chi sta da entrambe le parti.
Non voglio schierarmi anche io, come molti altri. Vorrei solo riportare qualche esperienza personale, magari utile.
Sono un immigrato. Certo, un immigrato di lusso. Io non sono emigrato nel paese che mi ospita per necessità e a bordo di un gommone (non so chi faccia mai caso al fatto che ogni immigrato è anche inevitabilmente un emigrato). Più comodamente, 6 anni fa ho scelto di mandare un curriculum a chi mi offriva il lavoro che mi piace. Qui ci sono arrivato con Ryanair, non molto comodo, ma certo niente a che veder col gommone. Manco mi serve il permesso di soggiorno, cosa che da sola vale il recente Nobel assegnato a noi Europei.
Anche se qui non sono poi così razzisti, c’è chi dice che il mio lavoro l’ho rubato ai locali. Ma io ho superato un centinaio di persone in una regolare selezione, penalizzato, rispetto ai locali, dalla minore conoscenza della loro lingua e della loro cultura. Io quel lavoro lo faccio con passione e scusate, ma ho la presunzione di produrre anche, soprattutto, per il beneficio dei locali, compresi i molti che lavorano con me.
Il mio ambiente di lavoro non ha niente a che fare con la tipica sofferenza dei migranti. Siamo spesso sotto pressione, ma non ci spacchiamo mai la schiena sotto al sole, per raccogliere pomodori per 3 euro la cassa. Io ho un buon reddito e godo di un certo prestigio sociale. Nel mio posto di lavoro siamo oriundi, europei, americani, russi asiatici. Anche se in una condizione di privilegio, penso di poter dire che siamo la dimostrazione che l’incontro di culture e di diversità è non solo possibile, ma molto fruttifero. Per esempio, i locali sanno organizzarsi molto meglio di me e della media dei miei connazionali, mentre, francamente, sono spesso delle caccole nel gestire gli imprevisti e nell’arrangiarsi con la varietà di situazioni e difficoltà a cui la vita inevitabilmente ti espone. Cose in cui nel mio paese, per questioni di sopravvivenza, siamo formidabili (se solo sfruttassimo queste doti per produrre qualcosa di utile, invece che per idiozie tipo evadere le tasse!).
Dicono che gli immigrati si frequentino solo tra loro, non si integrano. Ma non è così semplice. Io vado con piacere nei loro locali e frequento gente di tutte le nazionalità. Ma sono anche un emigrato. Mi manca il mio paese, anche se tra i motivi per cui l’ho abbandonato c’è il disgusto per la sua corruzione, la sua mentalità traffichina, la quantità di cialtroni e delinquenti che lo devastano ogni giorno e i criminali cialtroni che votano, votando con la panza invece che con la testa. Mi manca il mio villaggio, il suo clima, la sua cucina, il modo in cui la gente socializza, la lingua che usa, le amicizie e i familiari, l’accanirmi inutilmente nelle discussioni di politica. Mi mancano queste cose e l’ovvia conseguenza è che frequento molto anche i miei connazionali emigrati.
Qui non sono molto razzisti. Ma gli immigrati sono immigrati, non si sfugge mai. Ci considerano strani, strane abitudini, sguaiati, abituati a bere quel caffè che loro considerano insopportabilmente forte. Con quel loro senso incredibile di etica pubblica (che io ammiro a dismisura), è per loro inevitabile chiederti sempre di del tuo governo di ladri e buffoni, con domande tipo: ma come è possibile? Ma come fanno a votarlo? Difficile spiegare che, al di là di una maggiore conoscenza della mia cultura e della nostra storia, mi pongo anche io le stesse domande e sono anche quelle domande che mi hanno portato fin qui, in esilio volontario.
Qui non sono molto razzisti. Ma la paura della diversità, l’ignoranza, il senso di invasione, sono sentimenti umani. Non li accetto, ma non posso biasimarli più di tanto. Mai tanto quanto deploro il cinismo con cui i politicanti assecondano questi sentimenti e li trasformano in sporco reddito elettorale. Qui i partiti razzisti non sono molto popolari, ma esistono ed è inevitabile ritrovarti in mano il loro volantino, leggere le loro accuse e i loro alibi. Ci portano via il lavoro, il nostro welfare li privilegia, siamo schiavi dei burocrati di Bruxelles. Per i politicanti tutte le menzogne, tutte le banalizzazioni, tutto il peggio degli istinti più bestiali dell’umanità va bene, tutto porta voti. Fa niente se questo paese che mi ospita buttasse fuori tutti i suoi immigrati domattina, andrebbe a catafascio in un paio di settimane. Fa niente se il governo di destra pratica le politiche neo-liberiste di smantellamento dello stato sociale a prescindere dagli immigrati, contro i suoi cittadini prima di tutto. Fa niente se la difesa del welfare è nell’interesse di tutti e la guerra tra poveri non conviene a nessuno. Fa niente se questo paese vive in gran parte di esportazioni verso la comunità europea e non è più, per fortuna, una potenza coloniale, piena di quell’arroganza che i tempi moderni confondono, per fortuna, con l’orgoglio nazionale. Fa niente se io qui ci sono arrivato attraverso la selezione tra altri cento e contribuisco al PIL di questo paese, sia producendo che spendendo.
Tutto questo conta, non può mai contare fino in fondo, perché comunque c’è un noi è c’è un loro. E non è facile capire che chi siano esattamente noi e chi siano loro dipende dalla parte in cui ci si trova. Non è facile capire che per capire meglio bisogna fare lo sforzo di mettersi dall’altra parte. Non è facile capire che fare lo sforzo di capirsi conviene a tutti, può rendere migliore la vita di tutti. Non è facile rendersi conto che la storia del mondo, soprattutto dell’Europa, è in gran parte storia di migrazioni, le quali, al di là di inevitabili problemi, hanno prodotto evoluzione e progresso immensi. Non è facile ricordarsi che le migrazioni sono forze inarrestabili, che sono parte della nostra vita, a prescindere da come si sceglie di affrontarle, se assecondando le paure e l’ignoranza, oppure sforzandosi di capire e di mettersi nei panni degli altri.
Giunto alla fine di questo pistolotto, non voglio concludere con nessuna morale. Condanno l’irruzione violenta in una manifestazione pubblica a prescindere. Anche se non fossi d’accordo con quella manifestazione e sentissi anch’io solo il sapore della retorica ipocrita, deplorerei che si mischi irresponsabilmente la legittima critica alle politiche dell’immigrazione di una amministrazione legale e regolarmente eletta con una forza politica di neofascisti, che non si fa scrupolo di utilizzare metodi squadristi.
Ma non vorrei soffermarmi su questo. Volevo solo raccontare che sono un immigrato. Certo, un immigrato privilegiato. Soprattutto nel senso che posso osservare il mondo con l’occhio dell’immigrato, per quanto di lusso, ma anche con quello dell’emigrato di un paese che affronta la propria immigrazione da tempi relativamente recenti.
Volevo solo dire che sono Marco Brandizi. Italiano. Un po’ emigrato, un po’ immigrato e un po’ auto-esiliato in Inghilterra. Ancora in attesa di un po’ di speranza di tornare. Di un po’ di speranza di poter costruire un paese e un mondo migliore.
In cui nessuno è straniero.